panormus

Quando non esistevano i videogames, gli smartphone, i tablet, i social, internet, etc. , per i ragazzini appartenenti alla generazione degli anni 60/70’, di cui anche io ho fatto parte, il miglior modo per socializzare con gli altri era giocare per strada.

Finiti i compiti di scuola (per chi li faceva ), tutti i pomeriggi c’era un appuntamento fisso con gli altri ragazzini del quartiere, la partita di pallone.

Il nostro campo di calcio era una carreggiata stradale asfaltata o sterrata, una piazzetta, uno slargo, un ampio marciapiede, insomma qualunque area adatta a poter disputare, fra squadre avversarie, una partita di calcio, organizzando nel tempo dei veri e propri tornei.

Di solito la porta per segnare il goal era una saracinesca chiusa, magari di un esercizio commerciale in disuso, un portone di legno di un condominio, un muro, insomma dove non si poteva fare danno, o comunque limitarlo.

Il problema era che, infervorandosi nel gioco, il nostro vociare, urlare, imprecare, creava un vero e proprio baccano, per non parlare poi di quando il pallone arrivava a velocità sulla saracinesca di ferro, provocando un rumore assordante e perlopiù fastidioso per i residenti di quel quartiere.

C’era u Zu Cicciu u putiaru (lo Zio Ciccio il fruttivendolo) che imprecando contro di noi diceva “quannu havi a finiri stu buidiellu?” (Quando deve finire questo baccano?).

C’era a Za Cuncittina, a vedova du reducessè (la Zia Concettina, la vedova del piano terra), che affacciandosi dalle persiane della porta-finestra che era stata colpita dal pallone, esclamava “siti vastasi e mali insignati” (maleducati) ed ancora, rivolgendosi ad uno dei ragazzini che conosceva, diceva “rumani appena viu a to patri ciù ricu” (domani appena vedo tuo padre gli riferisco tutta la baldoria che avete fatto).

C’era u Zu Ninu “u pisciaru” (il pescivendolo) ca ‘nfilava a manu ntò catu cu l’acqua p’arruciari u pisci e macari n’arruciava puru a nuavutri pi farininni iri (che infilava la mano nel secchio con l’acqua per bagnare il pesce esposto e qualche volta bagnava pure noi per farci allontanare).

Alla fine, visto che noi continuavamo imperterriti la nostra partita di calcio, arrivava “u spertu” (l’esperto) “u malantrinu ru quartieri” (il malandrino del quartiere) “chiddu ca s’annacava” (che camminava con atteggiamenti intimidatori) e urlando esclamava “Chi fa vu tagghiu stu palluni? Siddu un vinni iti subitu va pigghiu u licca sapuni e vu tagghiu stu palluni” (Che fa ve lo devo tagliare questo pallone? Se non ve ne andate subito vado a prendere il coltello e ve lo taglio questo pallone).

Il pomeriggio successivo, eravamo ancora lì, come se nulla fosse accaduto, per una nuova partita di pallone.

I primi pupari siciliani costruivano da sè i paladini, guerrieri cristiani e saraceni, angeli, cavalli, draghi e figure mitologiche, riproducendo lo stile delle armature, creando i modelli e realizzando elmi, spade, corazze che poi rivestivano, pupi a volte dall'aspetto fiero, spavaldo o burlesco.

Nell'Opera dei Pupi si trasmettono ancora oggi stili e comportamenti del popolo siciliano come la cavalleria, il senso dell'onore, la difesa del debole e del giusto, la priorità della fede.

Le gesta dei paladini e il ciclo carolingio sono tra le tematiche trattate negli antichi canovacci usati dai pupari.

Carlo Magno, Gano, Orlando, Rinaldo, Angelica, hanno popolato le sponde dei carretti siciliani, i cartelloni propaganda degli spettacoli serali dei teatrini, le lambrette e i carrettini di uso vario e la fantasia di noi siculi, attraverso i cunti e le farse raccontate, la sera, attorno alla tavola di ogni casa.

L'Opera dei Pupi non era solo intrattenimento, ma svolgeva anche una funzione educativa e sociale, offrendo alle classi popolari, spesso analfabete, occasioni di svago e di apprendimento morale, mentre oggi rappresenta uno dei patrimoni culturali immateriali più preziosi della Sicilia, riconosciuto dall'UNESCO.

I pupi e le storie raccontate si collegano anche profondamente all'identità siciliana, legata a una storia di contatti, conflitti e integrazioni fra culture diverse, testimoniando la memoria storica e culturale dell'isola attraverso spettacoli itineranti, carretti decorati e racconti tramandati fra le varie generazioni.

Nel cuore della Palermo antica, tra le ombre ed i colori di una storia millenaria, nasce una delle più suggestive e dolci tradizioni siciliane: la frutta Martorana.

Non è solo un dolce, ma un pezzo di storia di fede, ingegno e bellezza che dalle mani delle suore benedettine del XII secolo giunge fino a noi, a raccontarci la ricchezza culturale di una città unica.

Le Origini al Monastero della Martorana

Il Monastero di Santa Maria dell’Ammiraglio, più comunemente noto come la Martorana, fu fondato nel 1143 dall’ammiraglio normanno Giorgio d’Antiochia. Nel 1194, la contessa Eloisa Martorana diede vita ad un nuovo convento nelle immediate vicinanze, che divenne centro vitale di una fiorente comunità di suore benedettine dedite alla preghiera, all’arte ed all’ospitalità.

Questo monastero era famoso per il suo rigoglioso giardino, popolato da alberi da frutto come limoni, cedri e zagare, simboli di vita, prosperità e rinascita. Tuttavia, in autunno, quando il giardino si “spogliava”, le monache si trovarono di fronte ad un problema: in previsione della visita di un ospite importante, forse il re di Sicilia o il vescovo, come narra la leggenda, era necessario mantenere vivo e colorato il giardino per poter essere fedeli a quell’appuntamento.

La frutta di mandorla

Per non deludere le aspettative e tributare gli onori all’ospite, una delle suore più intraprendenti ebbe un’illuminante idea: ricreare la frutta finta con pasta di mandorle, miele e zucchero.

Modellando quelle miscele con maestria si realizzarono dei frutti così perfetti da poter ingannare qualsiasi occhio: arance, limoni, fichi e melagrane, dipinti con colori realizzati con estratti naturali di frutta e verdura.

Questa frutta finta venne così appesa agli alberi spogli del giardino, che si trasformò in un incanto colorato e dolce. Quando il re assaggiò quei dolci rimase incantato dal sapore, ma anche dall’arte che si celava dietro di essi, dando così il la ad una tradizione lunga centinaia di ​‍​‌‍​‍‌anni.

Un’arte che diventa simbolo

La frutta Martorana non è solo dolcezza: è un’opera d’arte plasmata a mano, simbolo dell’abilità artigianale delle monache e, più tardi, degli artigiani siciliani. La pasta reale, fatta con mandorle macinate finemente, zucchero e miele, viene modellata con stampi e dipinta con pennelli e coloranti naturali per trasformarsi in piccole sculture commestibili.

Nel corso dei secoli, questo lavoro artigianale ha saputo attraversare le epoche, passando dalle cucine conventuali alle migliori pasticcerie di Palermo, conservando il suo valore simbolico. Era e resta un segno di ospitalità, memoria e continuità, tradizionalmente preparato anche per la Festa dei Morti, un’occasione in cui la dolcezza diventa gesto di ricordo e affetto verso i defunti.

Un Dolce senza Tempo

Passeggiando per Palermo, si possono ancora ammirare queste piccole opere d’arte nelle vetrine delle pasticcerie, pronte ad incantare con colori vivaci e dolcezza raffinata.

Non solo dolce da assaporare, ma anche un pezzo di storia, un simbolo di cultura e tradizione tramandata nel tempo.

Photo by I Segreti del Chiostro all'interno del Monastero di S. Caterina d'Alessandria a Palermo

anime dannate

Sulle pendici dell’Etna, uno dei vulcani più imponenti e misteriosi d’Europa, la tradizione popolare svela racconti avvolti nel mistero e nella paura.

Tra le storie più inquietanti si narra di anime dannate, condannate a un eterno supplizio non nell’aldilà fatto di fiamme invisibili, ma proprio sulla terra, sulle pendici del vulcano.

Questi spiriti tormentati, pare fossero trascinati fuori dall’inferno classico per scontare i loro peccati in luoghi di tenebra e sofferenza eterna.

Una delle leggende più suggestive parla di un’oscura processione di fantasmi che, nel cuore della notte, si materializzava vicino al cratere centrale. Questi spettri, dall’aspetto spaventoso e avvolti in una cappa di cenere scura, erano visti mentre lavoravano febbrilmente alla costruzione di un enorme castello.

Questo non era un castello qualunque, ma una roccaforte forgiata da pietre vulcaniche, scure e ruvidissime, così spigolose e compatte da sembrare scolpite dalle fiamme stesse del vulcano.

Gli spettri, secondo i testimoni dell’epoca, mormoravano tra loro parole incomprensibili, borbottando frasi senza senso, chinati sotto un carico inesorabile di fatica.

Il clima era carico d’angoscia, come se quel castello non fosse che una tortura eterna, una prigione di pietra senza fine.

La leggenda vuole che ogni volta che si posava l’ultimo blocco, il castello crollasse in un’esplosione di detriti, polvere lavica e macerie, seppellendo sotto la sua rovina proprio quegli spiriti dannati che si erano adoperati con tanto sacrificio.

La disperazione di questi fantasmi era senza limiti, obbligati a ricostruire incessantemente la struttura, come fossero intrappolati in un ciclo maledetto di pena e sofferenza senza possibilità di redenzione. Si racconta che questa condanna fosse il prezzo da pagare per i loro peccati terreni, e che ogni crollo fosse il segno tangibile di una maledizione che li costringeva a un lavoro infinito e senza riposo.